Hassan
era nato un giorno in cui la pioggia si riversava sulla città di
Mogadiscio come un diluvio, sembrava che il mondo dovesse finire. La
madre di Hassan, Medina, sentiva solo i dolori del travaglio; nel suo
“Cariish"1
dal tetto di lamiera, dove la pioggia batteva senza posa, come
tamburi che si richiamano l’uno con l’altro, Medina stringeva la
mano di sua madre, mentre l’ostetrica le diceva di spingere forte,
che vedeva la testa del suo piccolo. Nessuna di loro sapeva che fuori
imperversava una tempesta, che le strade non erano più tali, ma si
erano trasformate in fiumi che si incontravano per formare un fiume
ancora più grande e pericoloso, che trascinava chiunque e qualunque
cosa con sé. Le tre donne erano occupate a far nascere Hassan che
uscì dal grembo di sua madre con un ultima forte spinta e un grido
che per qualche secondo sovrastò il fracasso della pioggia battente
sul tetto di lamiera. Poco dopo, quel grido, fu sostituito dal pianto
dirompente e ribelle di Hassan, che urlava al mondo il suo dissenso
per essere stato trascinato fuori dal suo rifugio. Medina era senza
forze, l’ostetrica tagliò il cordone, pulì grossolanamente il
bebè e lo poggiò sulle braccia stanche di Medina che pianse
nell’accoglierlo. Lacrime di gioia e di dolore, per un bimbo senza
un padre.
Appena
Hassan iniziò il suo pianto, la natura si stupì e smise di piovere
all’istante. Il cielo si rasserenò ed uscì un sole luminoso e
caldo. Ben presto i rigagnoli d’acqua si asciugarono e gli uccelli
ripresero il loro canto. Poiché nelle nascite quel che conta è la
natura, l’inizio dell’esistenza di Hassan sarà ricordato per
sempre come “il giorno della tempesta e del sole”. Questo
era uno dei tanti modi per registrare una nascita all'interno di una
famiglia, se qualcosa di particolare era accaduto quel giorno, allora
sarebbe stato più facile ricordarlo.
Medina
iniziò a cullarlo subito, a soffiargli nell’orecchio la dolce
nenia che tutte le mamme mogadisciane cantano ai loro figli:
''Huwaaya
huwaa, hooyadaa ma joogto, kor iyo kofor ee jirtaa, kabaheedi
qaadatay … '' Huwaaya Huwa, la tua mamma è uscita, di qua e di là
è andata, ha preso le sue scarpe…
Lo
cullò così, gli diede il benvenuto con le prime parole somale, per
abituarlo subito a quei suoni. La nonna lo guardava con gli occhi
pieni di pianto, felice per essere nonna di un bel maschietto ma
anche triste perché il padre non era lì a festeggiarlo.
La
città di Mogadiscio cercava di riprendersi da vent’anni di guerra
civile2;
le case erano martoriate da colpi di mortaio come i cuori dei suoi
abitanti dalle perdite dei loro cari. Il papà di Hassan era una di
quelle vittime, morto un mese prima di conoscere il suo primo figlio.
Certo, Hassan avrebbe saputo chi era il padre, il suo nome, il suo
clan, la sua storia, ma sarebbe stato un orfano.
Ad
accogliere Hassan non c’era tutta la famiglia e questo sarebbe
stato un altro segno per lui. Il clan è importante per i somali, il
padre è importante per i somali e il nome della famiglia è tutto.
Senza un nome, un clan si è nudi ed indifesi e Hassan in quel
momento era nudo ed indifeso come la tartaruga della storia, “Din”;
ci voleva coraggio e forza per sopravvivere in una società senza una
corazza, senza il carapace.
“Waagii
hore diinku hilib guduudan buu ahaa”… una volta la tartaruga era
carne nuda. Andava in giro solo all’alba e al crepuscolo per non
essere bruciata dal sole e non essere vista dagli animali carnivori.
Un
giorno come prova d’amore e di fedeltà, Hawa (Eva) chiese ad Aden
(Adamo) di portarle il fegato di tartaruga.
Aden
era un uomo saggio ed era combattuto tra il desiderio di accontentare
la sua compagna e quello di risparmiare la vita della tartaruga.
Alla
fine però decise di soddisfare il capriccio di Hawa. Chiamò tutti
gli uccelli rapaci e comandò loro di trovargli il fegato di
tartaruga e di portarglielo.
La
tartaruga, che aveva sentito le terribili parole di Aden, si nascose
sotto un cespuglio piangendo e chiedendo la protezione di Dio.
Allah
esaudì la preghiera della tartaruga e la coprì di una pelle
squamosa e forte come la pietra che nessuno poteva penetrare.
Gli
uccelli provarono a beccarla e beccarla, ma alla fine tornarono da
Aden senza fegato e con il becco storto ricurvo come l’hanno oggi.
Da
quel giorno la tartaruga non teme nemici, perché nessuno è in grado
di rompere la corazza che la ricopre.”
Questa
fu la storia che Medina raccontò al suo piccolo Hassan quando
cresciuto un po’, l’ascoltava estasiato. Amava da impazzire le
storie che la mamma gli raccontava, storie di animali e di persone
che non esistevano più, storie che erano passate di bocca in bocca,
di padre in figlio, di generazione in generazione; ancora oggi queste
storie forgiano la vita dei giovani somali, per i quali gli anziani
sono le colonne portanti della famiglia e della società. Le storie
appartengono alla memoria degli antenati che l’hanno tramandata
oralmente per secoli, finché nei primi anni ’70, i somali hanno
avuto una lingua scritta.
Molte
di queste favole appartengono al mondo pastorale somalo e contengono
sempre un insegnamento didattico; i protagonisti sono quasi sempre
animali personificati proprio per aiutare i bambini a comprenderle.
Quando
fu un po' più grande, la mamma iniziò a raccontargli di suo padre:
era un uomo forte e coraggioso, che amava la sua terra e la sua
famiglia. I suoi genitori avevano sempre abitato a Mogadiscio,
“Xamar”, come l'hanno sempre chiamata gli “Abgal3”,
quelli del loro clan. Ma ora la città, con la guerra civile, era
piena di persone di vari clan, dal Nord della Somalia, come dal Sud e
da altre zone. Tutti erano interessati al suo valore strategico e i
vari distretti della città, erano stati chiusi per tutto il periodo
della guerra, divisi da mura invisibili, fatte dal sospetto e dalla
paura. Ma il papà era stufo di vivere nella paura, la sua “Xamar”
doveva rinascere più bella e
più forte di prima e lui lavorava affinché questo sogno potesse
avverarsi.
Un
giorno, era andato con altre persone a scavare lungo una strada che
delimitava il loro quartiere “ Halwadag”, a
sistemare i cavi dell'elettricità, quando un pazzo iniziò a sparare
contro di loro. Era un ragazzo sotto l'effetto di una droga, che
blaterava contro la modernità e il nuovo governo. Nella sua pazzia
aveva sparato alla cieca, colpendo Ibrahim, il papà di Hassan, in
pieno petto e un altro operaio alle gambe, prima che due uomini lo
fermassero. Per Ibrahim non ci fu nulla da fare.
Medina
era incinta di pochi mesi quando accadde tutto questo e per poco non
perse il suo bimbo. Si affidò a “Illahey4”,
che le desse la forza di sopportare questo dolore e di crescere suo
figlio da sola.
Lentamente
la città di Mogadiscio, cercava di riprendersi i suoi colori,
spenti per vent'anni: la gente e la città aveva voglia di rinascere.
Hassan cresceva insieme alla sua città. Ogni mattina, la mamma gli
preparava “Caanjero”5
simile
alla “njera” etiope ma più piccola,
oppure
“Malawax”
una
specie di crepes con un po' di olio di sesamo e zucchero; altrimenti
“miishari”,
semolino
di sorgo con un po' di latte e zucchero. Quando avanzava un po' di
sugo dalla sera prima, allora poteva aggiungere questo “Maraq”
e
la colazione allora era più gustosa. Non c'era una scuola a cui
correre incontro nelle giornate di Hassan; finché era piccolo, la
sua scuola erano la mamma e la nonna; quest'ultima gli insegnava il
Corano, le sure più facili per un bimbo, le preghiere più semplici.
Hassan seguiva la nonna nelle sue preghiere, si inginocchiava accanto
a lei e ripeteva la preghiera. All'età di cinque anni aveva già
imparato i momenti salienti della preghiera, dall'apertura
“Bismillahi
r-Rahmâni
r-Rahim
Al hamdu
li-Llahi rab-bil 'alamin...”
a qualche ayat che la nonna gli aveva insegnato. Quando fu un po' più
grande, iniziò ad andare anche alla scuola coranica. Insieme ad
altri bambini del suo quartiere, imparava a scrivere su pezzi di
legno, le sure e, se faceva qualche errore, il maestro gli dava botta
con un ramoscello sulle mani o sulle gambe. Non era certo come la
nonna, quel maestro! A casa se sbagliava, la nonna lo rimproverava e
pazientemente gli faceva ripetere la frase.
Quella
fu la sua scuola per un po' di tempo, fino a che non iniziò a
frequentare un'altra scuola, aperta da una ONG dove, finalmente poté
imparare a scrivere in somalo e in inglese, dove imparava anche la
matematica e a fare i calcoli.
Non
avevano molti banchi e spesso divideva il suo con altri due o tre
bambini; non tutti avevano un quaderno o una matita, così alcuni
scrivevano, altri ascoltavano solamente. A volte la scuola saltava
perché l'insegnante non veniva o perché era semplicemente
pericoloso uscire di casa quel giorno; avevano sentito uno scoppio da
qualche parte e si preferiva non avventurarsi fuori.
In
fondo loro erano fortunati, perché la sorella di Medina viveva a
Londra da diversi anni, era riuscita a scappare dalla guerra civile,
ad attraversare terre e mare e a sopravvivere a tutto per giungere in
Europa e chiedere asilo politico. Da Londra, ogni mese, mandava a sua
madre e alla sorella vedova, 100 dollari per vivere, a volte di più,
a volte di meno.
Non
sempre avevano la fortuna di mangiare due pasti al giorno: gli
alimenti costavano molto, era tutto importato e i prezzi salivano di
giorno in giorno. Spesso, gli alimenti venduti erano gli aiuti
umanitari della FAO o dell'ONU, che i malavitosi del luogo
rivendevano al popolo.
Per
Hassan era una festa quando la mamma riusciva a comprare gli
ingredienti e a preparare “Xalwo”,
il
tipico dolce somalo, nelle occasioni speciali, matrimoni o Eid. Lì
c'era da leccarsi i baffi per lui e si dimostrava molto disponibile
ad aiutare la mamma nella preparazione e le portava tutti gli
ingredienti: amido di mais, zucchero, polvere di cardamomo, noce
moscata, e “ghee”un
tipo di burro asiatico.
Medina,
mentre cucinava, raccontava altre storie al suo bambino e spesso le
parlava di come Xamar, la loro città, fosse piena di colori; il
bianco delle case, il verde acceso degli alberi, il rosa, il rosso
delle bouganville, l'arcobaleno variopinto delle “fute”
e dei “garbasar” delle
donne. Poi, all'improvviso tutto perse il proprio colore, con
l'arrivo dei “ gar dhere”,
dei “barba-lunga”, tutto divenne grigio e nero; le donne non
poterono più indossare il loro caratteristico vestito; gli alberi
sparirono divorati dal fuoco, le case si ingrigirono e furono colpite
da cannoni e fucili. Lo avvertì di stare attento ai “gar
dheer”, di stargli alla larga,
altrimenti anche lui sarebbe diventato grigio e triste. Gli spiegò
che questi uomini-grigi, barba-lunga, erano melliflui, lo avrebbero
affascinato con i loro racconti di santità, di piegarsi al volere di
un essere superiore per avere la vita eterna, in cambio della vita di
innocenti. Gli disse che c'era un unico Dio, misericordioso e
compassionevole, che amava i suoi fedeli e che non avrebbe mai
preteso la morte di innocenti in suo Nome, “Alhamdullilah”!
Concludeva.
Quel
giorno, sapendo quanto gli piaceva “Xalwo”, gli raccontò una
storia molto divertente sulle differenze nel linguaggio tra il Nord e
il Sud della Somalia. Questa storia riguardava proprio la parola
“Xalwo”, che al Sud definisce un dolce, mentre al Nord è il
pronome femminile.
“C'erano
una volta due uomini, uno del Nord e uno del Sud. Quest'ultimo era
entrato nel negozio del primo in cerca di “xalwo”.
Uomo
del Sud: avete della xalwo?
Uomo
del Nord: (sospettoso)Si
Uomo
del Sud: ah, io amo xalwo, è così tenera e deliziosa!
Uomo
del Nord: ( sempre più sospettoso) e come fate a sapere che è
tenera e deliziosa?
L'altro
che aveva l'acquolina alla bocca e desiderava ottenere il dolce,
rispose: “Lo so, lo so, me la gusto tutti i giorni!”
L'uomo
del Nord, ormai arrabbiato e convinto che quel tipo avesse dormito
con sua moglie e che ora si stesse vantando, stava per arrivare alle
mani con lui, quando un altro uomo che era lì e conosceva
quest'ultimo, intervenne appena in tempo informandolo che al Sud,
xalwo è semplicemente il nome di un dolce!”
Hassan
e la mamma continuarono a ridere per tutto il periodo di preparazione
del dolce, il bimbo già pregustando il momento in cui quella delizia
sarebbe arrivata nella sua bocca!
Hassan
cresceva e la sua vita si svolgeva in una zona piccolissima di quella
grande città. Non sapeva quanto poteva essere vasta Mogadiscio
perché per lui era già enorme il suo quartiere che non aveva
nemmeno percorso interamente. Sapeva che la sua città si affacciava
su “bad-weyn”,
sull'oceano, ma non ci era mai stato. Intorno al suo quartiere si
sentiva al sicuro, si conoscevano quasi tutti e spesso si incontrava
con i suoi amici, ma non si allontanavano mai molto; ad Hassan, le
parole di avvertimento della mamma rimbombavano continuamente nella
testa e, se vedeva un “gar
dhere”, si
nascondeva.
Sapeva che
quest’ultimi cercavano fanciulli come lui, per portarli via e
addestrarli a combattere e a pregare, ma lui non voleva lasciare la
sua famiglia.
Un giorno tornando
da una delle sue piccole scorribande con gli amici, si scontrò con
un tipo alto, ben vestito e una piccola barba che gli contornava il
mento. Hassan si spaventò e rimase impietrito a guardarlo, non osava
muoversi: era sempre tornato a casa tranquillo, mai incontri con
sconosciuti, così non seppe cosa fare.
“Assalam
Alaikum, wiilkeeyga, i waraan?
La pace sia con te, figliolo, come vanno le cose?”
lo interrogò il tipo.
Hassan, ammutolito
dalla sorpresa e dallo spavento insieme, non seppe cosa dire lì per
lì, poi, balbettando rispose “ Alaikum Salam, adeer, Waan
fiicanahay, Alhamdullilahi! La pace sia con te, zio, sto bene,
grazie a Dio!”. Riferendosi a lui con il termine “adeer”, zio,
rivolto in tono rispettoso agli uomini adulti somali.
L'uomo allora gli
chiese “Halkee degan tahay ?Abiti da queste parti? Anche io
abito qui vicino, magari possiamo fare la strada insieme eh?”
Hassan
fu ancora più sorpreso perché prima di allora non aveva mai visto
quell'uomo e di certo non era un suo “deris”
(vicino
di casa)... Non gli rispose ma iniziò a camminare lentamente,
cercando di riflettere sul da farsi.
L'uomo allora
continuò a parlare: “ Dobbiamo ringraziare Allah per quello che ci
dà, tu lo fai? Vai alla scuola coranica?”
“Si, certo; la mia
famiglia ci tiene alla mia educazione e vado ad entrambe le scuole,
quella coranica e in quella dove imparo a leggere e scrivere in
somalo e in inglese” rispose Hassan.
“Bene,
bene, si vede che sei un bravo figliolo e ubbidisci ai tuoi genitori.
Ma la vera scuola è solo quella coranica, nel Sacro Libro, trovi
tutto quello che serve. Tutto il resto è “haram”,
impuro. Sai, io e i miei fratelli abbiamo una vera scuola coranica;
possiamo insegnarti tante cose interessanti e possiamo anche
addestrarti ad essere forte e coraggioso, ti piacerebbe frequentare
una scuola del genere?” replicò l'uomo, camminando accanto al
bambino.
Hassan rifletteva
velocemente, cercava di mantenersi calmo ma era preoccupato, come
fare per liberarsi di quell'uomo? Non passava nessuno per la strada
in quel momento, nessuno che lui conoscesse per potersi sganciare da
quell'individuo. “Essere forte e coraggioso?” si chiedeva tra sé
e sé, ma la forza e il coraggio o ce l'hai o no, come si fa ad
insegnare una cosa del genere? Hassan rifletti, si diceva, cosa vuole
questo tizio?
Per farlo parlare,
Hassan annuiva, ma non rispondeva. Il “barba-lunga” sembrava
pensare che Hassan fosse interessato alle sue parole e così continuò
a parlare : “ Sai, questo paese si rovinerà ancora di più se
continuiamo a far entrare gli stranieri, questi infedeli vogliono
rubarci l'anima, uccidere la nostra gente e la nostra religione!”
Il bambino lo guardò
per un secondo esterrefatto “Uccidere la nostra gente? Ma non erano
loro a fare gli attentati a persone innocenti? Persone che erano
andate a fare spesa al mercato o a pregare in Moschea?” Pensò
ancora tra sé e sé.
“Dobbiamo
difenderci da questo malcostume portato dagli infedeli, dobbiamo
tornare alla religione in tutto e per tutto! Allora, cosa ne pensi?
Ti va di venire con me e dare un senso alla tua vita? Non dovrai
pensare a niente altro, ti daremo tutto: una casa, una famiglia, cibo
e armi e imparerai tante cose e come premio alla fine, avrai il
paradiso!” Concluse il tizio.
Hassan allora cercò
di tergiversare, di usare il suo stesso tono: “ E' molto
interessante quello che mi dici, ma come faccio a lasciare la mia
mamma e la mia nonna? Sono sole, mio padre non c'è più e non hanno
nessuno oltre a me. Posso provare a parlarci, a convincerle che è
per il mio bene, ma ho bisogno di tempo, non sarà facile.” e lo
guardò in viso, sorridendo, convinto di quello che diceva. Intanto
si era ricordato di una storia che la nonna gli aveva raccontato:
“Il
potere dell'educazione”
Una
volta c'erano due uomini, due cugini che viaggiavano insieme, stavano
andando in una scuola speciale dove insegnavano la religione.
Durante il viaggio si fermarono in una città governata da un re
ignorante, senza educazione; poiché era venerdì, si recarono alla
Moschea per la preghiera. Il re, dopo la preghiera, iniziò il suo
sermone pieno di non sense. La sera, dormirono in quella città e il
mattino dopo continuarono il loro viaggio.
Finalmente
arrivati a destinazione, cominciarono i loro studi sulla religione
Islamica. Trascorso il periodo di studio, uno dei due disse di
tornare a casa. Ma l'altro rispose che voleva continuare a studiare,
questa volta voleva dedicarsi allo studio della politica. Il primo
uomo invece decise di tornare a casa, si salutarono e l'altro riprese
il suo viaggio.
Passò
di nuovo nella città del re ignorante e, poiché era venerdì, si
fermò di nuovo alla Moschea dove il re dirigeva la preghiera. Pregò
insieme agli altri fedeli, al termine della preghiera, il re cominciò
con il suo discorso sciocco. Poiché era il re, nessuno si sentì di
interrompere o dire nulla, ma quell'uomo che aveva studiato la
religione, non poteva accettare gli errori del discorso del re,
quindi prese la parola, dicendo il contrario di tutto ciò che il re
aveva appena blaterato. Lo fece passare per un incompetente e
stupido. Il re si infuriò, chiamò le sue guardie e lo fece gettare
in prigione.
Dopo
due anni, il cugino, che aveva terminato i suoi studi di politica e
stava tornando a casa, si fermò in quella città anche lui per una
sosta. Non sapeva che il cugino era imprigionato lì. Capitò nella
città di nuovo di venerdì, quindi andò alla Moschea per la
preghiera, terminata la quale, il re fece di nuovo il suo solito
discorso stupido. Alla fine del discorso, lo studente di politica
alzò la mano, chiedendo la parola, il re gliela concesse e lui
disse: “ Il vostro re è un uomo così intelligente!” e continuò
a lodarlo in quel modo, poi disse:”La persona più fortunata al
mondo è quella che prega con questo re per quattro Venerdì, ma
sarebbe ancora più fortunata se tagliasse un capello dalla sua
testa!” e la gente corse per prendere un capello dalla testa del
re, tutti i fedeli della Moschea, cercarono di strappare un suo
capello, salirono dappertutto pur di riuscire a prenderne uno. Alla
fine, soffocato da quella moltitudine di persone, il re morì. Allora
la gente di quella città, scelse lo studente come loro nuovo re. Il
nuovo re liberò i prigionieri dal carcere e tra di loro, trovò il
cugino che, dopo due anni in prigione, era sporco, con barba e
capelli lunghi, ma vivo!
Hassan sorrise
dentro di sé al ricordo di questa antica storia, che la nonna aveva
sentito da suo padre, tanto tanto tempo fa e che, sicuramente, questo
“barba-lunga” non conosceva affatto!
Il
“barba-lunga” che osservava il bambino sorridere, pensò di
averlo convinto con i suoi discorsi e che non c'era bisogno di
aggiungere altro e attese una sua risposta. “ Mi piacerebbe molto
venire con te subito, ma permettimi di andare prima a casa ad
avvisare la mia famiglia delle mie intenzioni, non posso lasciarle
così, su due piedi!” disse Hassan con il tono più sicuro e
convincente che riusciva a fare. Il tizio, tronfio e felice di avere
un nuovo adepto alla sua causa, abbagliato dal suo successo
personale, acconsentì :” Ma certo! Allora ti accompagno, così ti
aiuto a convincerle!” Hassan ebbe un tuffo al cuore! Non voleva di
certo portarselo dietro quel “barba-lunga”! “ Noo, non c'è
bisogno! La strada fino a casa è lunga. Mi puoi aspettare qui, non
voglio che ti stanchi e che fai avanti e indietro. Sono sicuro che ci
vorrà poco: vado, le convinco e le saluto, va bene? Mi aspetti qui,
zio?” Disse Hassan, usando un tono gentile e rispettoso e
chiamandolo di nuovo “adeer”,
come si fa con gli adulti degni di rispetto e considerazione. Prima
che il tizio potesse replicare, Hassan schizzò via, come una
freccia, più veloce del vento verso casa sua, senza che quel tipo
avesse il tempo di dire o fare qualunque cosa.
Arrivato
davanti alla porta di casa, entrò trafelato e felice di averla
scampata bella! Raccontò con il fiatone alla mamma e alla nonna come
mai era entrato così di corsa e dell'incontro con il “gar
dheer” che
voleva
rapirlo
e portarlo via dalla sua casa e dalla sua famiglia.
Medina e la nonna si
guardarono negli occhi e si sorrisero furbe, le storie che gli
raccontavano allora avevano lasciato i loro semi e cominciavano a
fruttare! Furono felici di constatare che funzionavano e che il loro
piccolo Hassan stava crescendo forte dei loro insegnamenti, sicuro e
in grado di lottare contro le prepotenze e le false verità dei
cattivi di turno e di chiunque avesse provato a costringerlo a
seguirlo nei pensieri e nelle azioni.
Hassan era proprio
il “figlio del sole e della tempesta”, perché dietro quello
spirito allegro e indomito, si celava un futuro uomo forte e
combattivo!
(Questo racconto farà parte di un'antologia di favole interculturali)
1“Caarish”
è un'abitazione composta da una stanza sola, fatta di fango e legno
ed intonacata; spesso, ci sono due o tre di queste abitazioni con un
cortile in comune.
2In
Somalia, Africa Orientale, nel cosiddetto “Corno d'Africa”, nel
1991 è scoppiata una guerra civile, dopo la cacciata dal paese del
dittatore Siad Barre.
3“Abgal”
è il nome di uno dei tanti clan somali, sottoclan degli Hawiye che
è uno dei principali insieme ai Darod, Isaq e così via. Gli Hawiye
quindi gli Abgal, occupano soprattutto il centrosud della Somalia.
4“Illahey”
in somalo, Dio.
5“Caanjero”
Belli questi intrecci tra il narrativo, il simbolico e la cultura di un Paese: il bambino cresce forte e sano in una cultura del cuore guidato dalle donne di famiglia, vere depositarie di valori.
RispondiElimina